Jurassic World, il sogno di Hammond divenuto realtà, ma con retroscena oscuri

Quanti di noi sono stati emozionati guardando la scena dell’incontro di Alan e compagnia con l’enorme e comunque mansueto brachiosauro intento ad allungarsi verso le foglie alte dell’albero? Nel 1993 Steven Spielberg ha fatto conoscere al cinema e al mondo intero il suo Jurassic Park, un incredibile viaggio nel giurassico mai visto così prima d’allora, capace di impressionare positivamente diverse generazioni di spettatori, dagli adulti ai bambini. Probabilmente tra gli spettatori che, seduti nelle sale cinema a vedere questo film, ne rimasero entusiasti, c’era anche Colin Trevorrow, a cui Spielberg ha dato l’importante compito di dirigere il quarto capitolo della saga da lui iniziata ormai 22 anni fa. E 22 anni dopo, il sogno di John Hammond, ovvero quello di creare un parco di dinosauri non solo sicuro e protetto, ma anche aperto al pubblico, un’attrazione che potesse coinvolgere attivamente le persone, dai grandi ai piccini, si è realizzato. Un pò come ha fatto Spielberg con noi a suo tempo. I bambini adesso possono entrare nel parco, dirigersi nella zona predisposta e montare un cucciolo di triceratopo o di brontosauro con tutta tranquillità, così da instaurare un’amicizia tra umano e animale proprio come quella che viviamo ogni giorno con i nostri animali domestici cane e gatto. I numerosi paganti possono sedersi nelle tribune davanti ad un lago nell’attesa di vedere un gigantesco mosasauro addentare voracemente uno squalo. L’aria che si respira è quella del parco giochi a tema, nel quale consumare una giornata in famiglia in completa serenità all’interno di una cornice giurassica e alla scoperta dell’avventura.

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Claire Dearing guarda in macchina e ci invita ad entrare nel suo parco. Il parco di Hammond. Il parco di Trevorrow. Proprio come il film del ’93, il maestoso portone con la scritta Jurassic Park si spalanca di fronte a noi. Tutto accompagnato dall’originale colonna sonora che riascoltata a molti anni di distanza suscita ancora in noi emozioni forti e ricordi del primo capitolo.
Gray e suo fratello Zach sono ospiti della lontana zia che non vedono da anni, Claire appunto, alto responsabile dell’organizzazione del parco. Tuttavia quest’ultima deve cedere i due bambini alla sua assistente Zara, per via del molto lavoro che richiede la sorveglianza di tutte le attività di Isla Nublar. Ma soprattutto perché è sorto un problema di non poco conto. Il problema si chiama Indominus Rex, un dinosauro nato dalla genetica e da diversi incroci animali.
Veniamo così amaramente a sapere che il parco è vittima del marketing ed è necessario preparare la nascita di una nuova e mastodontica creatura che faccia arrivare nell’isola più pubblico e stimolare un continuo effetto wow sia su mercati che su spettatori. E che faccia comunque divertire e non uccidere. Il mercato sembra essersi inserito abbondantemente nella struttura pura e vergine di quello che doveva essere tanto un parco quanto una sorta di riserva naturale per i dinosauri. Già sembrò un fatto inimmaginabile resuscitare creature del genere, adesso gli scienziati sono giunti ad uno stadio tecnologico per cui sono in grado di farli nascere geneticamente modificati, unendo particelle neuronali e cellule di vari animali esistenti. C’è chi acclama questa nuova scoperta scientifica, pensando ad altre attrazioni, al marketing, al soldo in generale; chi invece lamenta che questa rivoluzione tecnologica abbia deturpato ciò che era naturale all’inizio (sebbene sia veramente labile il confine tra naturalità e resurrezione), così da evidenziare al primo posto non il desiderio di vedere la vita, ma il business.

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Forse ci sembra strano che i velociraptor vengano quasi domati da Owen Grady, data la loro conosciuta violenza e fame. Quasi, perché, come dice Owen, non c’è comunque da fidarsi. Ma il fatto che egli sia in grado di domare tali bestie significa che, ormai nel ventunesimo secolo, dopo aver assistito a 3 episodi di Jurassic Park, noi spettatori siamo stati in grado di domare le visioni dei dinosauri e dominare le emozioni stesse nell’atto di vederli nelle loro gesta. E’ come se fossero entrati nella normalità, nella quotidianità di sempre. Trevorrow forse lo sa, e per questo assimila tutto ciò che può dalle opere di Spielberg per proporre al pubblico mondiale non la stessa scena del brachiosauro citata inizialmente, quanto un vero e proprio omaggio al maestro americano, citando scene grazie alle quali sorridiamo e ricordiamo vicende giurassiche passate, colonne sonore grazie alle quali riassaporiamo l’entrata nel parco, e persino personaggi, come il dottor Henry Wu grazie alle mani del quale i dinosauri hanno potuto vedere la luce del sole e la vita. Trevorrow fa trasparire altri pensieri attraverso l’avventura di Owen da una parte e Gray dall’altra, ossia che Jurassic World è nato per ricordarci quanto è bello essere piccoli. Ed è proprio Gray il portatore di questo pensiero, il bambino con una tale passione dei dinosauri da avere in camera numerosi pupazzi raffiguranti le mitiche creature e a correre di qua e di là all’interno del parco per vedere ogni attrazione.

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Egli rappresenta la parte fanciullesca di noi che si emozionò alla prima visione 22 anni fa. Owen invece è la parte adulta che giudica, che non prova la stessa sensazione del bambino, ma che al contrario ha cresciuto interiormente uno stretto legame di amicizia con questi animali. Ormai sono parte di noi e ci teniamo.
Jurassic World non è uno scontro tra titani selvaggi. Jurassic World è un film “animalista” poiché all’interno di esso di lamenta il fantasma monetario del business che controlla ogni cosa; poiché gli animali creano feeling sia tra di loro che con gli esseri umani, hanno cervello e sentimenti proprio come noi e imparano ad affezionarsi. Restare insieme per sopravvivere è ciò che l’uomo deve imparare dal mondo animale. E pensiamo per un attimo come reagirebbe un animale alla vista del “mondo”, dopo una vita intera chiuso in una gabbia?
Grazie all’opera di Trevorrow ripercorriamo il primo Spielberg, un regalo cinematografico che ci ricorda il grande merito del maestro americano: quello di aver resuscitato i dinosauri di averli portati nelle nostre case.

Leviathan, lezione di immoralità, corruzione d’animo e d’azioni

Sotto una tenue nebbia, le ampie montagne in lontananza accompagnano lo sguardo intento ad ammirare il panorama naturale di quella zona nord della Russia. Le pendici attraversano silenziosi spazi formati da rocce e campi, sino a toccare l’acqua della spiaggia. Ad accarezzare la baia, il Mare di Barents. Quasi come se fossero la continuazione delle montagne stesse, pesanti ed immobili, le carcasse di navi arenate all’interno del golfo sembrano dare all’atmosfera del paesaggio un amaro tocco di desolazione, testimoniando una natura dura e cruda. Tra le abitazioni che colorano la baia, Nikolai vive con figlio e compagna nella dimora di sua proprietà, un grande terreno su cui un tempo lavoravano suo padre e, ancor prima di lui, suo nonno. Un terreno che è diventato l’oggetto protagonista di un processo legale tra Nikolai, che vuole difendere a tutti i costi ciò che le sue mani hanno costruito, la sua vita, la sua fortuna, e Vadim, un sindaco spietato che vede nel territorio conteso una interessante fonte di profitti economici. Un politico corrotto che utilizza illegalmente ogni suo potere pur di raggiungere lo scopo prefigurato. Un sindaco che dovrebbe essere sbattuto immediatamente in carcere. Ci sono delle carte, le prove della sua colpevolezza, i documenti validi. Ma il pignoramento della casa da parte dell’amministrazione cittadina arriva come un flagello divino.

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Zvjagincev disegna una drammatica lotta di un uomo che non vuol vedersi sottomesso alle azioni immorali di un primo cittadino che brutalmente tenta di estorcergli ogni cosa che lo lega al luogo di famiglia. Un uomo schiacciato e piegato dal volere altrui, logorato da una lotta impari, dalla quale non vede una semplice via d’uscita. Un terreno che si è costruito col sudore e le mani di un meccanico, che benché talvolta burbero, ama i suoi familiari. Tuttavia, nemmeno Dimitry, l’amico e avvocato di Nikolai, arrivato da Mosca, riesce a concepire fin dove il sindaco si vuole spingere pur di prendere possesso della residenza del meccanico. Ogni tentativo di cercare di farsi giustizia sembra vano. Una giustizia che,  lontana dall’essere vera e propria Giustizia, ostruisce le speranze di Nikolai e si accanisce spesso contro i più deboli, perché manovrata dai piani alti.
Il Leviathan , vincitore del Golden Globe per miglior film straniero e il Premio per la miglior sceneggiatura, scritta a due mani da Oleg Negin e dallo stesso  Zvjagincev, al Festival di Cannes, non è un’operazione di riscatto sanguinolenta e brutale. Anzi, la religione gioca un importante ruolo all’interno del film, che silenziosa e cauta dialoga da una parte con la corruzione materialistica e spregevole di una burocrazia marcia e dall’altra con gli sforzi di Nikolai di veder concretizzarsi la speranza di riappropriarsi della propria dimora.

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Le confessioni, tuttavia, non sono reali prove di colpevolezza. La dichiarazione di un peccato alle orecchie di un prete, quindi agli occhi di Dio, non produce pene tangibili. Al contrario, se colui a cui si svela un misfatto è un falso prete, allora falso sarà anche il suo Dio, e non vi sarà una vera e propria espiazione, bensì un’ipocrita consiglio simbolico che aiuterà ad alimentare la colpa, macchiando così il potere cittadino e quello divino di ingannevole frode.  Lo scontro tra Nikolai e Vadim rappresenta un diverbio drammaticamente profondo tra ragione e non–ragione in cui a primeggiare è la falsità di una giustizia egualitaria, l’illusione di un libero arbitrio, l’immoralità di scopi viscidi e azioni brutali. Vadim prende così le sembianze di quel leviatano di hobbesiana memoria che con una mano tiene stretta l’autorità cittadina e con l’altra il potere religioso, sporcando entrambi di corruzione e amoralità. Come si sconfigge il leviatano, il re di tutte le bestie feroci? Catturandolo con l’amo o legandogli la lingua?

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Giobbe, preoccupato del significato dell’esistenza, divenne burbero. Finché non scatenò l’ira di Dio, che apparve sottoforma di uragano, spiegando lui tutto con delle immagini. Giobbe visse sino a 140 anni, morì vecchio e contento. Pure Nikolai vorrebbe vivere questa ultima fortuna. Ed infine, assieme alle carcasse delle navi arenate, anche lo scheletro del leviatano poggia il suo peso nella baia, tinteggiando così lo scenario già di per sé desolante di una ulteriore punta di amaro.

Fury, cingolato che avanza all’interno del dramma

Siamo quasi al termine della Seconda Guerra Mondiale. L’esercito tedesco arretra verso il proprio paese, mentre i carri armati degli Alleati penetrano di forza oltre i confini. Da una parte si respira aria di vittoria, dall’altra di sconfitta. Ma da entrambi i lati degli schieramenti i morti continuano inesorabili ad accumularsi nei terreni fangosi del campo di battaglia, i muri delle case non smettono di essere bersagli di bombe aeree. Lo sa il sergente Don Collier, “Wardaddy” (Brad Pitt) per i compagni di guerra, che, insieme agli ultimi uomini rimasti del suo plotone, guida il carro armato Fury all’interno degli spazi nemici. Quello che si appresta a vivere Pitt, però, non è la stessa guerra di Bastardi senza gloria, una missione spavalda e ironica per il tenente Aldo Raine e il suo gruppo che insieme danno spettacolo collezionando scalpi di soldati nazisti.

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In Fury, David Ayer descrive la guerra come un flagello, un cancro per l’umanità. Combattere e uccidere per salvare altre persone e avere la pace, un paradosso indelebile che condiziona e opprime l’intero mondo che ne è vittima. Tanta è la rabbia che accompagna il viaggio all’interno delle trincee nemiche, una violenza capace di mettere un fucile in mano ad un soldato appena entrato nell’esercito e immediatamente spingerlo a diventare un assassino, impegnato in una lotta in cui se non il primo a premere il grilletto, allora sarai il primo a diventare cadavere; in cui se non sei sicuro che quel nazista, apparentemente privo di sensi, accasciato a terra, sia morto, allora devi continuare a riempirlo di proiettili finché non vedi il suo corpo tremare. In cui se hai paura, spari, se non sei deciso, spari.Quello che gli uomini di Fury comprendono è che la guerra, comunque tu la veda, è una disfatta, sia dalla parte dei vincitori che da quella dei vinti, consuma il volto e l’animo, crea un vuoto dentro te capace di drenarti anche le lacrime, immobilizzando così la mente in modalità d’assetto da battaglia.

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Non esiste momento per riposarsi, perché anche se sopraggiunge quel lasso di tempo, sia esso una pausa pranzo a casa di due donne naziste che non c’entrano niente con la guerra, essa vi penetra nei discorsi, spingendo il tono del pasto da calmo ad amaro, ricordando pezzi di storia vissuta violenti e drammatici, come sparare a cavalli indifesi e mangiarne la carne pur di sopravvivere. Ma Fury continua la sua marcia, schiacciando cadaveri, fino alla prossima missione, alla prossima città da recuperare, da salvare dal “male”, fino al crocevia da proteggere. Come fosse una sorta di road movie su un carro armato, immersi in un atmosfera cupa e funerea, tra momenti di battaglia, di desolazione e di morte, Don e il suo plotone sono costretti a vivere all’interno del cingolato da guerra, instaurando con esso un rapporto che è più di una collaborazione con il mezzo d’acciaio; esso si avvicina alla fratellanza, ad una familiarità che spinge i soldati a ripulire quello spazio stretto, quasi soffocante ma necessario per la loro sopravvivenza, dal sangue di compagni uccisi. Fury avanza, come avanza la violenza della Storia.

Bekas, volare e sognare per sconfiggere la guerra

Kurdistan, Iraq. Il periodo è l’inizio degli anni Novanta, Guerra del Golfo. Zana e Dana, fratelli curdi, sono costretti a vivere in mezzo alla strada, senza fissa dimora, privi della protezione dei genitori, dato che sono orfani. Sopravvivono come possono, racimolando qualche soldo ogni giorno, lucidando scarpe ai passanti, attirati, o spinti, dalle urla di Zana, il fratello minore, che incoraggia ogni persona che attraversa la piazza a sostare per pochi minuti dai due bambini. Entrambi dotati di un innocente spirito di ottimismo, vogliono arrivare alla enorme, quasi impensabile cifra che permetterà loro di comprare due passaporti grazie ai quali poter andarsene dall’Iraq di Saddam. Poiché è l’evasione il loro obiettivo. Stufi di  vivere come bekas, sono decisi a raggiungere la tanto amata America e incontrare Superman, con l’aiuto del quale, dicono, i loro genitori potrebbero tornare in vita. Mito non tanto di potenza fisica e intelligenza oltre l’umano, ma soprattutto modello di evasione, Superman può quello che non può l’uomo, ossia volare. Immersi in un desolante scenario di guerra, i due fratelli curdi possono soltanto immaginare di volare via verso un sogno lontano, espatriare in America, fuggire da quei luoghi in cui rischi, durante un passeggiata, di incappare casualmente in una mina. Anche simbolo di finzione, Superman aiuta Zana e Dana ad avere una speranza per la quale credere, un modo per continuare a combattere.

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Animo puro e voglia di farcela si uniscono e rendono il legame fraterno incredibilmente ferreo, un rapporto così stretto ed energico quasi da compensare la mancanza genitoriale. Insieme, la famiglia è forte, ma singolarmente si può essere fragili. Il rischio di rimanere soli può portare i due fratelli a compiere azioni azzardate o ad inseguire traguardi troppo lontani dalla loro portata. Sentiti complimenti vanno a Karzan Kader per aver realizzato un lungometraggio dove ripercorre una parte importante della sua vita, quando ha lasciato il paese iracheno. Un film, Bekas, che è lo sviluppo di un precedente cortometraggio intitolato anch’esso Bekas. Kader disegna un commovente quadro di uno dei momenti drammatici per la gente in Iraq, quella Guerra del Golfo con sullo sfondo l’immagine di Saddam dalla quale Zana e Dana vogliono solo scappare e smettere di essere bekas. Commovente perché ciò che colpisce l’occhio e il cuore sono le azioni tanto disperate quanto inconsapevoli dei due bambini, che fanno di tutto per superare gli ostacoli che si presentano davanti, anche a costo di litigare e scontrarsi.

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Ma cosa significa bekas? È l’appellativo che i curdi danno a chi ha perso, durante la guerra, tutti i membri della famiglia. Quindi significa essere soli, come i due fratelli. Tra questi, Zana si distingue per grinta e animo battagliero. Quando parla con Dana, il più delle volte non utilizza un tono colloquiale, bensì urla, sfogando tutta la rabbia repressa, com’è naturale che sia, poiché proprio quelle grida sono caratterizzate da una naturalità realmente, tangibilmente spontanea, come se urlare fosse la sola forma di dialogo in mezzo al disagio e disastro della guerra. Osservando le corse e le gesta dei due, una tenera ignoranza ci tocca e ci spinge a credere nella volontà e nell’ottimismo che muove i fratelli, avvolti da un’innocenza genuina che li eleva a simbolo d’evasione, a dei superman curdi alla ricerca della felicità.

Come la mia ira sconfigge il dolore, Cake

Sedute in cerchio, visi che si guardano e si emozionano insieme all’interno di una densa malinconia, l’incontro sul dolore cronico si apre con un ultimo saluto a Nina (Anna Kendrick), collega, amica, suicida. Le parole di conforto velate di una tangibile afflizione vengono drasticamente stroncate dall’affondo improvviso di Claire Bennet (Jennifer Aniston) sostenendo che l’azione estrema come quella proposta da Nina non aiuterebbe i sopravvissuti e i viventi in una riflessione sulla vita. Gli sguardi perplessi, e indifesi nei confronti dell’attacco di Claire, delle colleghe di sedia non accolgono volentieri tale impertinente pensiero critico, invitando questa a congedarsi dal gruppo.

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Le cicatrici che Claire porta con sé su varie parti del corpo, dal viso alle gambe, raccontano il trauma subìto dalla donna e testimoniano quanto ella sia legata indissolubilmente non solo al dolore fisico ma anche, come diretta conseguenza emozionale, all’ira. Al trauma ella risponde con un’aggressività che fa spavento persino alle colleghe di cerchio, incredule nel sentire parole talmente spinose. Latente dentro di lei, la rabbia è una costante del suo carattere post-incidente, manifestata con chiunque, sottoforma di biasimo al concetto di suicidio o rimproverando le premure della domestica Silvana (Adriana Barraza) o, ancora, nei confronti della fisioterapista in piscina. L’atteggiamento scontroso di Claire si dovrà però confrontare con uno straziante pensiero che la tormenterà continuamente, quasi come fosse vittima di una sorta di castigo per quanto detto precedentemente riguardo Nina. Infatti, durante i suoi sogni, Claire muore. Il ricordo di Nina diventa una vera e propria ossessione, una forma di contrappasso dantesco che non lascia libero nemmeno il momento del riposo notturno. I comportamenti rancorosi  tenuti nei confronti delle persone vicine portano i segni dell’evento che le ha scosso la vita, in modo da scaricare il patimento che ogni giorno è costretta a sopportare.

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Stressata, stanca e debole, Jennifer Aniston dà grande prova di sé, creando un personaggio talmente denso di dolore e rabbia da essere quasi palpabile. Una profonda interpretazione della Aniston che la spinge, visto l’attaccamento psicologico e l’affezione verso Claire, a collaborare nella produzione dello stesso Cake. Un film tenuto vivo  dalla dimostrazione attorica limpida dell’attrice, con una potente assimilazione fisica e interiore, e con l’aiuto della Barraza, la cara domestica Silvana. Data una regia pressoché immobile, sembra che le due donne siano protagoniste ed allo stesso tempo creatrici del film, come se istantaneamente esso si formasse di fronte ai nostri occhi solamente grazie alle loro fatiche e sforzi, senza l’uso da mediatore del regista. Un sottile e impercettibile involucro con all’interno personaggi duri e vivi.

Lettere di uno sconosciuto, l’incapacità di riconoscere il passato recente

A ritmo di passi di danza, i fucili in mano alle fanciulle della scuola di ballo volteggiano per la sala, durante le prove per il prossimo spettacolo, “The red Detachment of women”, che ha il sapore di una parata militare piuttosto che di un’esibizione artistica. Dan Dan (Huiwen Zhang) è una di queste bambine ed ambisce con decisione al ruolo principale. A casa, sua madre Yu (Gong Li) riceve dagli ufficiali di polizia una notizia sconcertante: suo marito Lu Yanshi (Dao Ming Chen), prigioniero di Stato a causa della sua opposizione ai dettami della Rivoluzione Culturale e di Mao Tse-Tung, è fuggito di prigione. Dal viso di Dan Dan, plasmata dalle regole ferree del partito, si percepisce un sentimento di ostilità nei confronti del padre, col quale ha trascorso pochissimo tempo della sua vita.

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Yu invece è sconvolta dalla notizia, nonostante non abbia contatti con Lu da almeno dieci anni. Ma Lu è un nemico del partito. Dan Dan condivide il pensiero. Yu è confusa. L’incontro con il marito non tarderà ad arrivare, poiché egli, nascondendosi nell’oscurità, con vestiti sporchi e sopravvivendo soltanto con qualche sporadico pezzo di pane, riuscirà a giungere alla dimora di Yu. Il continuo bussare fa sobbalzare la donna, che, a metà tra la paura di vedere il suo lontano marito e quella invece delle conseguenze che sarebbero potute scaturire dall’apertura di quella porta, non reagisce, rimanendo immobile ad ascoltare i colpi leggeri della mano che batte. Rinuncia. E prima di fuggire nell’oscurità da cui è arrivato, le lascia un biglietto sotto la porta, in cui vi è indicato il luogo del prossimo incontro tra i due. Un incontro, alla stazione ferroviaria, che vedrà coinvolti non solo i due protagonisti ma anche l’intervento della polizia che dividerà marito e moglie per tre lunghi anni. Ma anche per sempre. Al suo ritorno, egli ritroverà una Yu stravolta dai fatti, stanca e diversa, una Yu che ha perso la memoria durante gli ultimi tre anni, fermando la sua vita nel periodo che segna la fine della Rivoluzione Culturale, la quale però vive ancora nella sua mente. Un periodo in cui crede ancora che sua figlia frequenti la scuola di danza e in cui attende suo marito ogni 5 maggio alla stazione. Ma Lu sarà lì presente, irriconoscibile agli occhi della moglie.

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Come di consueto, il maestro Zhang Yimou parla di Cina, stavolta con Lettere di uno sconosciuto si sofferma sul periodo della Rivoluzione Culturale propugnata da Mao nei confronti della corrente controriformista di Deng Xiaoping. Gong li, fedele compagna artistica di Yimou dai tempi di Lanterne rosse, ha il compito indiretto di descrivere gli effetti di tale momento storico, mostrandoceli concretamente sulla pelle di Yu. Precisamente le conseguenze che la sua memoria subirà. Di pari importanza ed intensità sarà il colpo che dovrà sopportare Lu, nel rivedere una moglie dopo una ingiusta e tormentata prigionia, ma che lo tratta come fosse un perfetto sconosciuto. Yu adesso è una madre che aspetta soltanto l’arrivo del marito alla stazione, in un eterno ritorno che non diverrà mai realtà e mai giungerà ad una vera conclusione. È come se Yu fosse bloccata all’interno di quel drammatico momento storico, dal quale riceverà soltanto contraccolpi fisici e psicologici, sebbene inconsciamente, poiché il mondo che ella vive è il mondo reale e presente. Stanca e sconvolta mentre rimette apposto le stanze di casa sua o durante la preparazione del pranzo, Gong Li ci dona un personaggio soggetto di attacchi a livello interiore talmente devastanti da parte della politica estrema di Mao da non accorgersene nemmeno. E noi che guardiamo lo schermo, inermi, osserviamo i movimenti di lei, le sue azioni, spesso vane e vuote di profonda concretizzazione. Di primaria importanza sono gli sguardi, sui quali Yimou concentra spesso l’attenzione, che grazie ad un notevole uso dello zoom ci vengono spinti di fronte, quasi come fossero schiaffi di malinconica verità. Quei volti di Yu, inconsapevolmente fiacca, di Gong Li, debilitata, quasi disorientata, sono una coerente fotografia di quel che è successo, dell’effetto di spaesamento che la Rivoluzione ha comportato sia negli occhi degli estranei, come noi, che nelle stesse anime e negli stessi corpi dei diretti interessati. Percepiamo quindi l’attesa, la disillusione, lo smarrimento dei personaggi, grazie non solo ad un eccezionale interpretazione di Li, ma notevole plauso artistico va anche a Dao Ming Chen, ossia Lu Yanshi, sulla cui carne verrà riverberato il dramma di Yu, la mancanza di un passato senza la cui presenza è impossibile costruire solide fondamenta per il presente.

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Dopo il massacro di Nanchino (I fiori della guerra), il maestro Yimou ci offre quindi un altro spaccato della tormentata storia della Cina, spingendoci a ricordare un passato che Yu non è in grado di fare, incapace di riconoscere l’uomo che ha di fronte, logorata internamente, lontana dalla vera realtà. Ciò che non può fare Yu è di competenza dell’interlocutore che l’ascolta, non tanto Lu quanto lo spettatore stesso, il quale conosce sia il presente sia il passato della donna. La memoria di Yu è ferma nel tempo, come immobile e vivida è l’esperienza, e con essa il trauma, del periodo della Rivoluzione Culturale.

L’importanza di chiamarsi “madre”

Caos, striscioni e carrellate delle macchina da presa: inizia così l’ultima opera di Nanni Moretti che ci porta direttamente sul set del film che Margherita, la regista, sta cercando di girare. Lotta sindacale all’interno di una fabbrica e futuri licenziamenti da parte della nuova proprietà, sono i temi sui quali la regista vuole porre l’attenzione. La scarsità di idee, la pessima riuscita attorica delle comparse, il maldestro lavoro di organizzazione delle scene mettono in serie difficoltà Margherita (Margherita Buy), che già provata da un lavoro per lei insoddisfacente si ritrova a dover pensare alla propria madre, ricoverata in ospedale per problemi di cuore.  Alla disorganizzazione della propria vita Margherita, infatti, cerca di trovare sollievo nelle visite alla madre, l’unica capace di recarle conforto e profondo senso di felicità. Allo stesso modo fa Giovanni (Nanni Moretti), fratello di Margherita, ingegnere in aspettativa, apparentemente calmo e felice delle proprie scelte di vita ma che nasconde un incredibile caos di emozioni. Le vicissitudini del lavoro di Margherita, tra l’inadeguatezza di un film che richiama un certo impegno politico e sociale, ma che non riesce mai a prorompere fino in fondo, e tra le bizze di una star italo americana (John Turturro) che non riesce ad interpretare poche battute, fanno sì che la regista sia poco presente in ospedale e che non riesca a metabolizzare il futuro ma purtroppo veloce distaccamento da sua madre.

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Il film che Nanni Moretti ci propone non è solo un richiamo autobiografico (la morte della madre durante le riprese di Habemus Papam), ma più un caleidoscopio di temi e contrastanti emozioni. Si affaccia sulla scena il tema già presentato precedentemente della perdita del lavoro e della precarietà dello stesso, che nel film della regista Margherita viene volutamente mostrato, da Moretti, senza nessuna minima impronta di realtà, accentuando così la finzione di una situazione invece reale, del nostro tempo, che dimostra una stanchezza ed una inadeguatezza morale universale. La stessa Margherita durante la conferenza stampa per la promozione del proprio film percepisce il vuoto dell’ aver voluto e dovuto parlare di una tema che forse non importa più a nessuno. Di pari passo si sviluppa la figura della regista nel suo più privato: dalla totale mancanza di creare un legame sincero, duraturo, senza dubbi e senza rancori da parte di lei e dal non capire sua figlia, allo spezzare sul nascere una storia d’amore appena nata per paura di rovinarla poi. Ma Margherita non è solo incapace di rapportarsi con gli altri, lo è soprattutto nei confronti di se stessa. Incapace di accettare la propria vita, la propria separazione dal marito, la fine di sua madre e quindi incapace di sopportare i suoi dubbi, le sue angosce più profonde, involontariamente trascina anche gli altri che gli stanno attorno nel buio della sua malinconia caotica. Il solo momento di riordino della sua vita è quando parla con sua madre, che diventa così il punto fermo di un oceano emozionale sempre in moto, il faro che le ricorda che ogni tanto è meglio fermarsi e restare a guardare la luce che illumina le buie onde in fondo all’anima.

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Come molti film di Moretti, gli elementi biografici si confondono con le trame dei personaggi, ma qui, gli elementi di opinione privati e pubblici del regista vengono marcati con particolare esigenza trasformando la figura di Margherita nel proprio alter ego. Moretti non fa parlare solo il suo personaggio come se fosse lui, ma fa qualcosa di più, lo sprona a guardarsi dentro, quasi come a doversi togliere la maschera di finzione che porta addosso. Così, scavando alla radice della propria purezza, tolta ogni fibra di finzione, rimane il ricordo di una madre dedita ai propri figli, spariscono i dubbi di cosa sia veramente reale oppure no. La stessa voglia di togliere questa maschera di finzione, Moretti, la rivolge al cinema. Un cinema saturo di finti ideali, di finti buoni propositi, di finto impegno sociale, di finta realtà. Un cinema non più capace di capire a fondo la società, ma solo costellato da persone che credono di interpretare tale realtà.

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Mia madre è un film che racconta l’inadeguatezza delle scelte, l’importanza del trovare un punto fermo nella propria vita e il difficile rapporto tra realtà e finzione; il tutto viene sempre appoggiato ad un tema differente, per questo mai noioso e mai ridondante e a delle magnifiche interpretazioni attoriche da parte dei personaggi principali del film. La strepitosa Margherita Buy nei panni di Margherita ha tirato fuori una delle migliori  interpretazioni di sempre; giocando sull’emozioni più forti e contrastanti ha creato un personaggio angosciato, infelice, debole ma ribelle. John Turturro, interpretando nel film di Margherita il nuovo proprietario della fabbrica, è riuscito a trasmettere lo stato di completo disorientamento e la totale stanchezza di una star americana che non sopporta più di vivere nei e per i suoi film. Nanni Moretti nei panni di Giovanni, ha dipinto una figura di un uomo calmo ma inquieto che non chiede altro dalla vita che poter cambiare. Infine, la magnifica Giulia Lazzarini nel ruolo della madre, che con dolce rassegnazione per una vita che sta finendo è capace di ridare felicità e speranza nelle vite dei figli.
Mia madre oltre ad essere un film che colpisce per la sua potenza di scavare a fondo nelle proprie coscienze, è un inno alla figura che più di tutte crea e trasforma la vita di tutti noi, la propria madre.

Wild, immersione nella natura dei ricordi

Nella maestosa foresta verde, guardata da un cielo che abbraccia l’intero ambiente, gli alberi quieti parlano tra di loro. Silenzio. Si sentono le foglie mosse dal vento. Quasi riusciamo a percepire il battito cardiaco di una roccia. Proprio su un ampio ammasso roccioso giunge una ragazza, sola, trasportando un vistoso e pesante zaino ingombrante sulle spalle. Ferma ad ammirare il paesaggio, ma soprattutto per riposarsi, decide di prendersi una pausa. Si spoglia delle sudate scarpe e notiamo come i piedi siano notevolmente consumati, logorati dall’impegnativo viaggio che la vede come protagonista. Cheryl Strayed sta percorrendo il Sentiero delle creste del Pacifico, considerata una sfida che deve riuscire a superare con le sue sole forze e con le attrezzature da campeggio che si porta con enorme fatica sulla schiena. Notiamo che il viaggio di Cheryl si fonda su qualcosa di più profondo, sulla propria redenzione nei confronti di avvenimenti passati, grazie ai numerosi flashback che cospargono il film, il quale prende le sembianze di un puzzle riflettente alcuni momenti dei suoi ricordi. Spesso Cheryl è sull’orlo di cedere, pentendosi di aver intrapreso quell’impresa.

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La fatica di montare una tenda, di mettersi lo zaino o solo di rialzarsi in piedi dopo una breve pausa, la paura della notte, di rimanere da sola, sono elementi che indicano una forza di volontà minata alle fondamenta, colpita dalle difficoltà del viaggio intrapreso. Ma l’obiettivo è troppo importante per tirarsi indietro a passo già compiuto, a sterpaglia, a pietra già superata. Sebbene il suo cognome, “Strayed”, significhi letteralmente “randagio”, “vagante”, come se avesse insito nel suo DNA un animo selvaggio, indipendente dal mondo ma all’interno della foresta, la ragazza non sembra essere in sintonia con la natura.
Dopo Dallas Buyers Club, Jean-Marc Vallèe torna sullo schermo con Wild, lungometraggio che tenta di narrare le gesta della storia vera di Cheryl Strayed descritta nel suo libro Wild: From Lost to Found on the Pacific Crest Trail. La scelta registica di creare il film sottoforma di lunga linea temporale presente inframezzata da brevi flashback in cui osserviamo i ricordi di Strayed non aiuta a penetrare affondo nella mente della ragazza e a percepire il dolore che prova, anche a causa della recitazione della Witherspoon non proprio in armonia con la parte a lei affidata.

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La Strayed di Witherspoon ha difficoltà a trasmetterci la fatica fisica e mentale che è disposta a sopportare pur di giungere alla conclusione di un viaggio in cui, immersa nel nulla desertico, viene colpita più volte dal passato come fosse una serie di pallottole destinate a tormentarla e a provocarle nostalgia. La macchina da presa di Vallèe è leggermente dinamica nei movimenti, intenta ad osservare la ragazza mentre monta la tenda o mangia un pasto freddo e senza troppe risorse energetiche, la segue mentre cammina, si sofferma su mani, capelli e piedi. Un viaggio registico composto da una camminata solitaria nei pensieri di una donna che deve riconfermarsi e rivalutare i pesi e i rimorsi della sua vita. Il confronto con l’altro film dalla tematica selvaggia, Into the Wild – Nelle terre selvagge di Sean Penn è immediato, come sono immediate le differenze sostanziali tra i due. L’opera di Vallèe non riesce a colpire profondamente lo spettatore, ad immergerlo nella natura selvaggia, grande protagonista che nel film di Penn, insieme ad Emile Hirsch, riesce invece a concretizzare e a dare al tutto un tocco di tangibilità reale, mentre nel primo l’interpretazione della Witherspoon sembra soccombere in mezzo al travolgente selvatico che la circonda. La ragazza sembra cedere in qualsiasi momento, mentre successivamente si rialza, ma non riusciamo a percepirne lo sforzo fisico, né l’intensità dei movimenti e il dolore nel volto. Un puntino di carne ed ossa, ma senza visibile e concreta sostanza, capace di raggiungere la meta ambita grazie non tanto alle proprie energie nell’oltrepassare ostacoli desertici costituiti di fogliame e rocce, quanto invece grazie ad una forza (registica) invisibile e lieve.

Selma, la marcia morale celebra il coraggio della parola

1964. King si prepara accuratamente la cravatta mentre ripete davanti allo specchio il discorso che accompagnerà la celebrazione del premio Nobel per la pace ad Oslo. La tensione lo porta a cambiare le frasi, le parole, il tono di voce, testimoniandone l’importanza etica e vitale e quanto dietro tale discorso ci siano migliaia di vite di neri emarginati e vessati dallo Stato e dall’uomo bianco. Una tensione smorzata soltanto dai tentativi della moglie di rilassarlo, accarezzandogli le spalle, calmandolo. Ma benché Martin Luther King (David Oyelowo) abbia espresso il suo più intimo sogno, denso di parole d’amore e di rispetto per la gente che rappresenta, davanti ad una platea di uomini illustri quale è quella di Oslo, il pregiudizio nei confronti di persone diverse solamente per il colore della pelle caratterizza le azioni degli uomini e delle donne bianche, e la violenza cieca e ipocrita non cala. Vittima di tali azioni è Amy Lee, donna nera che esige il diritto di votare. Tuttavia, l’impiegato dell’ufficio pubblico non è d’accordo a concederle l’onore di nominare il candidato di preferenza repubblicano o democratico che sia, assolutamente contrario all’idea che un individuo di colore possa soltanto prendere in mano una penna per esprimere un parere politico. Dopo averle posto una serie di domande con fare intimidatorio riguardo i giudici dell’Alabama, Amy Lee non sapendo tutti i nomi precisi di questi si vede negato il concesso al voto.

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Intimidazione e paura sono le armi che più colpiscono la gente di King, aggredita fisicamente e moralmente dalle mani della società. La segregazione razziale non è giunta al termine con l’annunciazione del celeberrimo discorso, il quale sembra rappresentare solamente una flebile speranza incorniciata intorno da una serie di assurdi omicidi a sfondo razziale e da ripetute violazioni di libertà personali. Ava DuVernay dona uno scenario in cui il protagonista di colore sembra andare incontro a sole sconfitte, portandolo a confrontarsi più volte col presidente Lyndon Johnson (Tim Wilkinson), favorevole alla sua causa, ma non troppo. Una intrinseca diffidenza giace nel suo animo. Il duello dialettico tra King e Johnson riflette quello fisico tra gli agenti di polizia americani e la popolazione di Selma, in cui si manifesta l’incontrollata violenza dei bianchi nei confronti di neri impotenti durante le varie marce. Mentre il loro pastore vede le immagini dei massacri in televisione.La volontà di lottare per la libertà, per l’uguaglianza, semplicemente per la vita, e divenire una comunità unica, una nazione senza divisioni, la forza di farcela animano i cuori dei principali manifestanti che non si arrendono al primo pestaggio della marcia iniziale, ma continuano mentre anche le brutalità subite nelle loro pelli continuano. Tramutare il discorso di King per l’umanità intera in azione pacifica. Non rimanere in silenzio di fronte agli episodi, ma far sapere al mondo, tramite televisioni e giornali, il limite dell’ignoranza cosa è capace di compiere grazie alle mani e ai manganelli del potere.

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La crociata morale mostrata dalla DuVernay è accompagnata da una importante vena politica al suo interno, capace di penetrare sino all’interno del nucleo familiare e scombussolarlo, creando attriti. Secondo J. Edgar (Dylan Baker), “King è politicamente degenerato”. La sua ipocrita cecità lo porta ad entrare nell’intimità della famiglia King e creare tensione. Attaccare lì dentro, nel suo interno, è la tattica del massimo rappresentante del Federal Bureau, mano dello Stato, capace di manipolare le vite dei cittadini a proprio piacimento, che disarciona le pareti familiari per spingersi verso il nucleo della vita privata. DuVernay presenta uno scenario in cui una parziale ottusità politica tenta con ostinazione di allontanare il futuro prossimo e il progresso che ne deriva, il mondo che cambia, il miscuglio di razze tanto temuto dal governatore dell’Alabama, George Wallace (Tim Roth). Un panorama in cui la parola è l’arma più potente che il cittadino può impugnare nei confronti di uno Stato oppressore.

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In Selma si contano un maggior numero di dialoghi e discorsi rispetto a quello della visione di maltrattamenti e prepotenze, segno che la facoltà di parlare, di esprimersi, di enunciare le proprie sentenze supera la vigliaccheria dell’odio senza coscienza e motivato da futili cause. La parola contro la brutalità gratuita. DuVernay ci spinge ad entrare non tanto nella testa di King, ma in quella delle migliaia persone di colore vessate dal pregiudizio. I numerosi ed intensi primi piani che ci vengono forniti dalla sua regia ci presentano volti stanchi di stare in trincea a sopravvivere, rinchiusi in quella gabbia rappresentata dal braccio politico dell’uomo bianco stritolatore. “Un uomo si alza in piedi solo per esser buttato giù”. Ma l’invito di King, incorniciato spesso da una luce quasi angelica che lo eleva a qualcosa di più di un semplice uomo, aumentando la portata pastorale della sua posizione di predicatore, è quello di avanzare per i propri principi, passo dopo passo, mattone su mattone, fino a giungere all’obiettivo.
Ogni persona calpestata, malmenata è un pezzo di libertà che si allontana, ma anche un pezzo di ignoranza che si palesa. Il lontano Vietnam e la causa nera testimoniano due guerre ideologicamente ingiustificabili, simboli di sconfitte morali in cui le vittime inermi sono picchiate da odio iniquo. Fondamentali sono il dialogo, sempre libero da catene costrittrici, e l’informazione, anch’essa svincolata da amoralità di ogni sorta, di un giornalista che racconta con le lacrime agli occhi cosa sta accadendo.

All the wilderness, in attesa di manifestarsi

Immerso nella verde tranquillità del bosco, James Charm (Kodi Smit-McPhee) si concede un momento di solitudine, accompagnato soltanto dal suo quaderno. Illuminate dai raggi del sole che trafiggono le chiome degli alberi, le pagine ci mostrano un elegante raffigurazione di un uccello con scritto accanto “causa di morte”. Inoltre, vediamo, in un’altra pagina, “William Charm”, suo padre. James decide di terminare la sua permanenza nel bosco, quando incontra un gruppo di ragazzi. Un po’ intimorito ma allo stesso tempo sicuro di sé, tramite un biglietto James dichiara la sua sentenza tanto dura quanto inaspettata, ossia uno dei ragazzi morirà. Detto ciò, scappa, corre tra gli alberi e le frasche, convinto di quale sia la sua meta. Appena uscito dal bosco, si ferma, più precisamente rimane immobilizzato di fronte alla vista di un ponte. La pausa dalla corsa permette all’altro ragazzo, di cui è stata predetta la futura morte, di giungere da james e di tirargli un pugno in pieno volto.

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È difficile che un occhio nero passi inosservato, soprattutto al cospetto della propria madre, che tra la quasi rassegnazione di avere un figlio che parla di argomenti strani e, allo stesso tempo, la forza e la volontà materna di aiutarlo, lo esorta a smettere di andare a dire alle persone che esse moriranno. E lo invita a seguire le sedute e i consigli del dottor Pembry (Danny DeVito). Malgrado la contrarietà, James è costretto a vedere il dottore. In sala d’attesa, coglie l’occasione per parlare con una ragazza intenta a leggere un libro, pure lei frequenta la clinica. Successivamente, il colloquio con Pembry non sembra portare proficui risultati e il ragazzo si prende una pausa andando in bagno. Momenti in cui ne approfitta per scappare dallo studio del medico. Passato l’angolo dell’edificio, la stessa ragazza conosciuta precedentemente, Val (Isabelle Fuhrman), dalla scala antincendio lo vede e gli chiede dove stia andando. James, senza tante alternative, risponde che sta tornando a casa. “Non è molto ambizioso”, dice Val.

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La selvaticità è un luogo di paura e meraviglia, dove tutte le cose vanno a vivere e dove tutte le cose vanno a morire, ed ogni uomo ha la sua. Così recita l’incipit di All the wilderness, parole di James, parole di suo padre. Tale selvaticità è un emozione che permea tutto il film e la stessa vita del protagonista, rispecchiata anche nelle sue letture di romanzi come Moby Dick o i poemi di Sandburg. Egli possiede una volpe, un babbuino, un lupo dentro di sé, con zanne affilate ed è la stessa selvaticità che glielo ha donato e deve saperlo domare, senza perderlo o manifestarlo troppo. Michael Johnson ci mostra la vita di James attraverso una macchina da presa che gli sta vicina, come se fosse la sua unica e vera amica. Lo accompagna nella sua passeggiata nel bosco. Scruta le pagine del suo quaderno. Gli sta dietro durante la sua fuga e immediatamente stacco in nero nel momento in cui gli viene sferrato il pugno. Il regista utilizza lo strumento cinematografico in modo da infondere alle vicende un intrinseco dinamismo, muovendosi intorno ai personaggi, retrocedendo per non esser troppo invadente, usando un leggero quanto gradevole e azzeccato effetto fuori fuoco, creando quella sorta di aria che distanzia pure noi dal soggetto ripreso. Un’aria intrisa di malinconia, come si percepisce durante l’intero lungometraggio, e una consapevolezza delle cose effimere, una sensazione che ci arriva anche grazie alla colonna sonora densa di una fragilità tangibile. Johnson presenta un pezzo di vita in cui un periodo caratterizzato da uno stato di precarietà stabile può essere portato ad uno stadio di decisionalità tanto improvvisa quanto benefica, sprigionando una vitalità nascosta, non conosciuta, che solo la “selvaticità inquieta, in attesa” può svelare.