Quanti di noi sono stati emozionati guardando la scena dell’incontro di Alan e compagnia con l’enorme e comunque mansueto brachiosauro intento ad allungarsi verso le foglie alte dell’albero? Nel 1993 Steven Spielberg ha fatto conoscere al cinema e al mondo intero il suo Jurassic Park, un incredibile viaggio nel giurassico mai visto così prima d’allora, capace di impressionare positivamente diverse generazioni di spettatori, dagli adulti ai bambini. Probabilmente tra gli spettatori che, seduti nelle sale cinema a vedere questo film, ne rimasero entusiasti, c’era anche Colin Trevorrow, a cui Spielberg ha dato l’importante compito di dirigere il quarto capitolo della saga da lui iniziata ormai 22 anni fa. E 22 anni dopo, il sogno di John Hammond, ovvero quello di creare un parco di dinosauri non solo sicuro e protetto, ma anche aperto al pubblico, un’attrazione che potesse coinvolgere attivamente le persone, dai grandi ai piccini, si è realizzato. Un pò come ha fatto Spielberg con noi a suo tempo. I bambini adesso possono entrare nel parco, dirigersi nella zona predisposta e montare un cucciolo di triceratopo o di brontosauro con tutta tranquillità, così da instaurare un’amicizia tra umano e animale proprio come quella che viviamo ogni giorno con i nostri animali domestici cane e gatto. I numerosi paganti possono sedersi nelle tribune davanti ad un lago nell’attesa di vedere un gigantesco mosasauro addentare voracemente uno squalo. L’aria che si respira è quella del parco giochi a tema, nel quale consumare una giornata in famiglia in completa serenità all’interno di una cornice giurassica e alla scoperta dell’avventura.
Claire Dearing guarda in macchina e ci invita ad entrare nel suo parco. Il parco di Hammond. Il parco di Trevorrow. Proprio come il film del ’93, il maestoso portone con la scritta Jurassic Park si spalanca di fronte a noi. Tutto accompagnato dall’originale colonna sonora che riascoltata a molti anni di distanza suscita ancora in noi emozioni forti e ricordi del primo capitolo.
Gray e suo fratello Zach sono ospiti della lontana zia che non vedono da anni, Claire appunto, alto responsabile dell’organizzazione del parco. Tuttavia quest’ultima deve cedere i due bambini alla sua assistente Zara, per via del molto lavoro che richiede la sorveglianza di tutte le attività di Isla Nublar. Ma soprattutto perché è sorto un problema di non poco conto. Il problema si chiama Indominus Rex, un dinosauro nato dalla genetica e da diversi incroci animali.
Veniamo così amaramente a sapere che il parco è vittima del marketing ed è necessario preparare la nascita di una nuova e mastodontica creatura che faccia arrivare nell’isola più pubblico e stimolare un continuo effetto wow sia su mercati che su spettatori. E che faccia comunque divertire e non uccidere. Il mercato sembra essersi inserito abbondantemente nella struttura pura e vergine di quello che doveva essere tanto un parco quanto una sorta di riserva naturale per i dinosauri. Già sembrò un fatto inimmaginabile resuscitare creature del genere, adesso gli scienziati sono giunti ad uno stadio tecnologico per cui sono in grado di farli nascere geneticamente modificati, unendo particelle neuronali e cellule di vari animali esistenti. C’è chi acclama questa nuova scoperta scientifica, pensando ad altre attrazioni, al marketing, al soldo in generale; chi invece lamenta che questa rivoluzione tecnologica abbia deturpato ciò che era naturale all’inizio (sebbene sia veramente labile il confine tra naturalità e resurrezione), così da evidenziare al primo posto non il desiderio di vedere la vita, ma il business.
Forse ci sembra strano che i velociraptor vengano quasi domati da Owen Grady, data la loro conosciuta violenza e fame. Quasi, perché, come dice Owen, non c’è comunque da fidarsi. Ma il fatto che egli sia in grado di domare tali bestie significa che, ormai nel ventunesimo secolo, dopo aver assistito a 3 episodi di Jurassic Park, noi spettatori siamo stati in grado di domare le visioni dei dinosauri e dominare le emozioni stesse nell’atto di vederli nelle loro gesta. E’ come se fossero entrati nella normalità, nella quotidianità di sempre. Trevorrow forse lo sa, e per questo assimila tutto ciò che può dalle opere di Spielberg per proporre al pubblico mondiale non la stessa scena del brachiosauro citata inizialmente, quanto un vero e proprio omaggio al maestro americano, citando scene grazie alle quali sorridiamo e ricordiamo vicende giurassiche passate, colonne sonore grazie alle quali riassaporiamo l’entrata nel parco, e persino personaggi, come il dottor Henry Wu grazie alle mani del quale i dinosauri hanno potuto vedere la luce del sole e la vita. Trevorrow fa trasparire altri pensieri attraverso l’avventura di Owen da una parte e Gray dall’altra, ossia che Jurassic World è nato per ricordarci quanto è bello essere piccoli. Ed è proprio Gray il portatore di questo pensiero, il bambino con una tale passione dei dinosauri da avere in camera numerosi pupazzi raffiguranti le mitiche creature e a correre di qua e di là all’interno del parco per vedere ogni attrazione.
Egli rappresenta la parte fanciullesca di noi che si emozionò alla prima visione 22 anni fa. Owen invece è la parte adulta che giudica, che non prova la stessa sensazione del bambino, ma che al contrario ha cresciuto interiormente uno stretto legame di amicizia con questi animali. Ormai sono parte di noi e ci teniamo.
Jurassic World non è uno scontro tra titani selvaggi. Jurassic World è un film “animalista” poiché all’interno di esso di lamenta il fantasma monetario del business che controlla ogni cosa; poiché gli animali creano feeling sia tra di loro che con gli esseri umani, hanno cervello e sentimenti proprio come noi e imparano ad affezionarsi. Restare insieme per sopravvivere è ciò che l’uomo deve imparare dal mondo animale. E pensiamo per un attimo come reagirebbe un animale alla vista del “mondo”, dopo una vita intera chiuso in una gabbia?
Grazie all’opera di Trevorrow ripercorriamo il primo Spielberg, un regalo cinematografico che ci ricorda il grande merito del maestro americano: quello di aver resuscitato i dinosauri di averli portati nelle nostre case.