L’importanza di chiamarsi “madre”

Caos, striscioni e carrellate delle macchina da presa: inizia così l’ultima opera di Nanni Moretti che ci porta direttamente sul set del film che Margherita, la regista, sta cercando di girare. Lotta sindacale all’interno di una fabbrica e futuri licenziamenti da parte della nuova proprietà, sono i temi sui quali la regista vuole porre l’attenzione. La scarsità di idee, la pessima riuscita attorica delle comparse, il maldestro lavoro di organizzazione delle scene mettono in serie difficoltà Margherita (Margherita Buy), che già provata da un lavoro per lei insoddisfacente si ritrova a dover pensare alla propria madre, ricoverata in ospedale per problemi di cuore.  Alla disorganizzazione della propria vita Margherita, infatti, cerca di trovare sollievo nelle visite alla madre, l’unica capace di recarle conforto e profondo senso di felicità. Allo stesso modo fa Giovanni (Nanni Moretti), fratello di Margherita, ingegnere in aspettativa, apparentemente calmo e felice delle proprie scelte di vita ma che nasconde un incredibile caos di emozioni. Le vicissitudini del lavoro di Margherita, tra l’inadeguatezza di un film che richiama un certo impegno politico e sociale, ma che non riesce mai a prorompere fino in fondo, e tra le bizze di una star italo americana (John Turturro) che non riesce ad interpretare poche battute, fanno sì che la regista sia poco presente in ospedale e che non riesca a metabolizzare il futuro ma purtroppo veloce distaccamento da sua madre.

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Il film che Nanni Moretti ci propone non è solo un richiamo autobiografico (la morte della madre durante le riprese di Habemus Papam), ma più un caleidoscopio di temi e contrastanti emozioni. Si affaccia sulla scena il tema già presentato precedentemente della perdita del lavoro e della precarietà dello stesso, che nel film della regista Margherita viene volutamente mostrato, da Moretti, senza nessuna minima impronta di realtà, accentuando così la finzione di una situazione invece reale, del nostro tempo, che dimostra una stanchezza ed una inadeguatezza morale universale. La stessa Margherita durante la conferenza stampa per la promozione del proprio film percepisce il vuoto dell’ aver voluto e dovuto parlare di una tema che forse non importa più a nessuno. Di pari passo si sviluppa la figura della regista nel suo più privato: dalla totale mancanza di creare un legame sincero, duraturo, senza dubbi e senza rancori da parte di lei e dal non capire sua figlia, allo spezzare sul nascere una storia d’amore appena nata per paura di rovinarla poi. Ma Margherita non è solo incapace di rapportarsi con gli altri, lo è soprattutto nei confronti di se stessa. Incapace di accettare la propria vita, la propria separazione dal marito, la fine di sua madre e quindi incapace di sopportare i suoi dubbi, le sue angosce più profonde, involontariamente trascina anche gli altri che gli stanno attorno nel buio della sua malinconia caotica. Il solo momento di riordino della sua vita è quando parla con sua madre, che diventa così il punto fermo di un oceano emozionale sempre in moto, il faro che le ricorda che ogni tanto è meglio fermarsi e restare a guardare la luce che illumina le buie onde in fondo all’anima.

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Come molti film di Moretti, gli elementi biografici si confondono con le trame dei personaggi, ma qui, gli elementi di opinione privati e pubblici del regista vengono marcati con particolare esigenza trasformando la figura di Margherita nel proprio alter ego. Moretti non fa parlare solo il suo personaggio come se fosse lui, ma fa qualcosa di più, lo sprona a guardarsi dentro, quasi come a doversi togliere la maschera di finzione che porta addosso. Così, scavando alla radice della propria purezza, tolta ogni fibra di finzione, rimane il ricordo di una madre dedita ai propri figli, spariscono i dubbi di cosa sia veramente reale oppure no. La stessa voglia di togliere questa maschera di finzione, Moretti, la rivolge al cinema. Un cinema saturo di finti ideali, di finti buoni propositi, di finto impegno sociale, di finta realtà. Un cinema non più capace di capire a fondo la società, ma solo costellato da persone che credono di interpretare tale realtà.

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Mia madre è un film che racconta l’inadeguatezza delle scelte, l’importanza del trovare un punto fermo nella propria vita e il difficile rapporto tra realtà e finzione; il tutto viene sempre appoggiato ad un tema differente, per questo mai noioso e mai ridondante e a delle magnifiche interpretazioni attoriche da parte dei personaggi principali del film. La strepitosa Margherita Buy nei panni di Margherita ha tirato fuori una delle migliori  interpretazioni di sempre; giocando sull’emozioni più forti e contrastanti ha creato un personaggio angosciato, infelice, debole ma ribelle. John Turturro, interpretando nel film di Margherita il nuovo proprietario della fabbrica, è riuscito a trasmettere lo stato di completo disorientamento e la totale stanchezza di una star americana che non sopporta più di vivere nei e per i suoi film. Nanni Moretti nei panni di Giovanni, ha dipinto una figura di un uomo calmo ma inquieto che non chiede altro dalla vita che poter cambiare. Infine, la magnifica Giulia Lazzarini nel ruolo della madre, che con dolce rassegnazione per una vita che sta finendo è capace di ridare felicità e speranza nelle vite dei figli.
Mia madre oltre ad essere un film che colpisce per la sua potenza di scavare a fondo nelle proprie coscienze, è un inno alla figura che più di tutte crea e trasforma la vita di tutti noi, la propria madre.

Maraviglioso Boccaccio: storie di passato e contemporaneità

Nel 1348 la peste attanaglia Firenze con le sue vie lunghe e strette piene di silenziosa morte. Il solo rumore è quell’incessante calpestio di zoccoli trainanti carri di disperazione; sopra di essi decine e decine di corpi ammassati, dilaniati da quell’orribile malattia che fa mute le anime in pochi giorni. Una fastidiosa campanella annuncia l’arrivo dei monatti in ogni angolo di strada. Si fermano, prelevano una madre e sua figlia mentre il padre, osservando con gli occhi di chi non crede alla fine della propria vita, si butta su di loro a proteggere quei corpi puri di amore. Poche persone hanno il coraggio di camminare all’interno della città; nessuna si avvicina all’altra e con la testa china ognuna riprende la propria strada in fretta, come se anche il solo guardarsi negli occhi fosse contagioso, pauroso. All’improvviso un scia celeste di vesti ondulanti attraversa furtivamente e velocemente le stradine della Firenze antica, fino ad arrivare ad una chiesa; entrano, voltandosi indietro per evitare di essere viste. Sette ragazze si ritrovano insieme in quella chiesa buia e abbandonata, tremanti dalla paura anche della sola aria che respirano; qui alcune di loro abbracciano chi li stava aspettando: tre ragazzi sbucano dall’oscurità e baciano appassionatamente le rispettive fidanzate. Tra pianti di chi non ce la fa più a sopportare di sopravvivere tra la morte e la vita, decidono tutti insieme di partire il giorno seguente per andare a vivere in collina a respirare aria più pulita e distaccarsi dalla morsa letale che è diventata la loro amata città. Arrivati in quella bella villa di campagna subito i ragazzi decidono di darsi delle regole e incominciano a vivere i primi giorni in tranquillità, anche se in ognuno di loro aleggia ancora il ricordo di quella campanella incessante di morte, quello strepitio di carri, quei corpi abbandonati da Dio.

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Per passare il tempo i dieci ragazzi decidono di raccontarsi delle storie; ogni giorno infatti uno di loro prenderà la parola e racconterà agli altri le proprie novelle: storie di amore, passione, cieco divertimento, morte e disperazione; un riflesso incondizionato della loro esistenza. Vengono così alla luce le storie della bella Catalina e del Gentile Carisendi, del matto Calandrino, della tormentata Ghismunda e del suo Guiscardo, della badessa Usimbalda e dello sfortunato Federigo degli Alberighi. Passati dieci giorni, così come sono passate le loro dieci storie, la nostalgia dalla loro città arde nei loro cuori e improvvisamente sotto una pioggia purificatrice e salvifica salutano l’arrivo di una nuova vita.

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“Maraviglioso Boccaccio” è un meraviglioso dipinto di umanità al cui interno punteggiano i sentimenti di una vita intera. I protagonisti non sono quei ragazzi o i loro personaggi raccontati, bensì le loro paure, le loro ansie, le  loro speranze e i lori amori. Quei sentimenti, quelle sensazioni che accomunano i giovani di un tempo a quelli di oggi; quella paura di vacillare, di non farcela, ma anche quella grande voglia di vivere e di apprezzare lo stare insieme, vengono amplificati nel nostro tempo. Così quella Firenze pestilenziale ricorda l’Italia di oggi: gruppi di giovani che se ne vanno perché non vogliono sopravvivere, ma vivere, cercando tranquillità e serenità altrove, ma con la nostalgia di una terra amata e con la voglia matta di tornare per potersi dire: “rinizio da qui, da dove sono partito”.

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I fratelli Taviani hanno enfatizzato il valore stesso dei sentimenti espressi nel loro film, grazie all’uso di una fotografia particolarmente scenica: la macchina da presa si sofferma sempre a individuare il paesaggio che contorna le storie; un paesaggio che è sempre riflesso dell’intima sensazione umana provata in quell’istante. Inquadrature quindi che ricercano l’essenza ma che allo stesso tempo suggeriscono una potente visione del tutto. La luce poi, gioca un ruolo fondamentale: a metà tra la vita e la morte, si delineano gli oggetti, i visi, le azioni compiute dai personaggi richiamando così quel famoso gioco di ombre tipico di Caravaggio. I colori, come la luce, hanno un uso particolarmente metaforico: solo le vesti delle fanciulle nella villa di campagna, così vivide, incarnano quella speranza di vita che pulsa dentro i loro corpi. Come la natura, in questo caso, è portatrice di morte, la donna, alla stessa maniera, è portatrice di vita. Di notevole rilievo sono da citare quindi Simone Zampagni per la fotografia, Lina Nerli Taviani per i costumi e tra gli attori, Kim Rossi Stuart, per la sua strepitosa interpretazione teatrale di Calandrino, così come la regia dei Fratelli Taviani, che ha ricostruito e reinterpretato con originalità e semplicità la meravigliosa opera letteraria di Boccaccio: il Decameron.

The Imitation Game: Il grande “gioco” della Seconda Guerra Mondiale

Anni 50, Manchester. E’ finita da poco la seconda guerra mondiale e un uomo si ritrova a sedere con la testa china su di sé aspettando di essere interrogato dalla polizia. Quell’uomo è Alan Turing, uno dei matematici e crittografi più brillanti del XX secolo nonché padre della moderna informatica. E’ stato arrestato dopo che è stata riaperta un’indagine su di lui, sul suo passato “militare” mancante, ma soprattutto sull’essere un’omosessuale, che per lo stato inglese di quel tempo era considerato un vero e proprio reato punibile con la reclusione. All’agente che lo interroga non importa molto se sia omosessuale o meno, a lui interessa sapere la verità sulla sparizione dei suoi dati militari dagli archivi di stato. Così, Alan, con  occhi calmi e con voce sicura e ferma, incomincia a raccontare quel pesante passato iniziato a Bletchley Park, chiamata anche Stazione X, che fu il più importante luogo, durante la seconda guerra mondiale, per la crittoanalisi dei codici e di messaggi cifrati degli avversari tedeschi.

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Un gruppo di matematici tra i quali anche Joan, una giovane ragazza laureatasi in aritmetica e logica, sfidano il tempo tra migliaia di carte, conti che non tornano, codici segreti, matite che si consumano, cercando di decifrare il più grande e complesso sistema di scrittura crittografata tedesca chiamata dagli inglesi “Enigma”. Questa macchina, ogni mezzanotte cambia le sue impostazioni non facendo capire quali siano le regole del gioco da usare per poterla decifrare. Alan, tra tutti il più geniale ma anche il più scontroso, cerca di portare avanti un proprio progetto da solo, senza l’aiuto degli altri matematici, considerati da lui “solo un peso”. Presto però si rende conto, anche grazie ai saggi consigli di Joan, con la quale nascerà poi un legame profondo, di dover accettare il fatto che da solo non può riuscire a costruire la sua macchina, che secondo lui, permetterà poi di decifrare “Enigma”. Il gruppo di matematici, diventa presto un gruppo di lavoro unito capace di giungere alla fine alla costruzione della macchina di Alan che lui ha chiamato Christopher. Questo nome ha un valore speciale ed autentico per il geniale matematico e lo si capisce dai numerosi flashback che ci vengono proposti: Christopher infatti è stato nella sua adolescenza l’unico amico della sua vita. Alan, infatti, ha sempre avuto problemi a rapportarsi con gli altri per la sua natura un po’ particolare che egli stesso definisce “strana”. E’ stato oggetto di violenze da parte di suoi compagni di collegio, ma l’unico capace di stargli accanto e di farlo sentire “normale” è stato Christopher che nelle lunghe chiacchierate serali prima di tornare nei propri alloggi gli insegnava a crittografare i messaggi. Da lì è nata la sua passione, da lì è nato il suo profondo riconoscimento per l’unica persona che gli ricordava sempre che:  “Sono le persone che nessuno immagina che possono fare certe cose, quelle che fanno cose che nessuno può immaginare”, ed è proprio quello che Alan riuscirà a fare, restando però nell’anonimato per oltre 50 anni. Lo Stato inglese, non ha mai riconosciuto ad Alan Turing l’importanza delle sue azioni visto che, lavorando per i servizi segreti, nulla poteva essere detto successivamente. Il matematico inglese, dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha continuato a vivere come un semplice cittadino fino al giorno del suo interrogatorio nella centrale di polizia a Manchester, fino a che non è stato arrestato e condannato per “atti osceni”, ossia per essere semplicemente omosessuale. La controversia di uno stato che solo grazie alla genialità di Turing e del suo gruppo di matematici ha potuto vincere la guerra insieme agli altri paesi alleati, non ha solo cancellato la sua figura di “eroe della nazione” privandogli qualsiasi riconoscimento, ma ha infangato il suo nome pochi anni dopo, come se l’ideazione di Christopher non fosse servito a far vincere la guerra, come se niente fosse successo. “The Imitation Game” è proprio questo: un grande gioco nel quale chi vince, perde, e chi crede di vincere ha in realtà perso.

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La strepitosa immagine che ci viene data di questo geniale matematico inglese, è dovuta all’eccellente interpretazione di Benedict Cumberbatch, attore conosciuto da Hollywood solo poco tempo fa, ma già sull’onda del successo da parecchi anni in Inghilterra, prima come attore teatrale poi come attore cine-televisivo (il suo exploit lo ha avuto con la serie televisiva Sherlock Holmes arrivata anche in Italia).  Benedict racconta e mostra, un uomo fragile, sconvolto da un passato adolescenziale problematico, ma allo stesso tempo ricco di forza e di ingegno. I mille volti di Alan/Benedict vengono seguiti con spasmodica attenzione dalla macchina da presa che incornicia ogni suo respiro, tremolio o esitazione mostrandolo come un uomo che ha saputo condurre “il gioco imitativo” della sua vita con coraggio e determinazione, nascondendo la sua natura omosessuale, “inghiottendo” tante umiliazioni e violenze subite, ma non rinunciando mai a quello che amava di più: il suo lavoro.

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Questo ritratto cinematografico è del regista norvegese Morten Tyldum, fresco di nomination ai Golden Globes e già titolato come Miglior Film dal Toronto International Film Festival del 2014.

Ritorno a l’Avana: il sogno spezzato di una Cuba “rivoluzionaria”

Cuba, L’avana. Sole, mare, caos, canzoni e una terrazza piena di amici dipingono il profilo di una città abbandonata a se stessa, tra baracche e grattacieli in lontananza. Su quella terrazza un gruppo di amici di vecchia data si sono ritrovati per il ritorno di uno di loro, Armando, tornato dopo 16 anni da Madrid. Come se fossero ancora giovani e spensierati Tania, Armando, Rafa, Eddi e Aldo fumano, bevono, ballano e ridono fino alle lacrime, fino a che i ricordi non si imbrattano di malinconia e tristezza. Piano piano, una ad una, vengono a galla le vite di ognuno di loro e la felicità apparente delle loro esistenze si trasforma nel rimorso, nell’angoscia di aver vissuto vite che non erano le loro. Tutto viene scoperto tra la rabbia, le offese e i risentimenti di quel gruppo di amici che su quella terrazza, che guarda il mare nel suo infinito estendersi e che è incastonata tra decine di case immobilizzate nella loro povertà, scoprono a loro volta cosa sono diventati. Tutti hanno vissuto il periodo della Revolucion, tutti hanno visto cosa fosse la Revolucion; un regime dittatoriale che per credere in un sogno di rivincita contro l’imperialismo americano e occidentale, ha distrutto le vite di tutti coloro che si sono opposti ad esso. Proprio quegli amici, legati dall’indissolubile affetto e dalla voglia di volercela fare, si sono arresi ad uno stato che credeva di costruire un’identità unita e originale, ma che irrimediabilmente ha “abbattuto” se stesso.

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Tania , Armando, Rafa, Eddi e Aldo hanno voluto costruire la propria felicità sullo studio, sin dai tempi del liceo. Hanno creduto che la cultura, una propria cultura fosse l’indispensabile per poter vivere; così ognuno di loro è diventato pittore, dottore, scrittore, ingegnere, ma poi qualcosa si è inceppato e alla fine nessuno di loro ha continuato a fare quello per il quale tanto aveva studiato. Tania, ad esempio, è un’oculista che riesce a lavorare poche ore a settimana e non riesce a vivere di quello che guadagna; i suoi figli li ha lasciati partire e vive sola da tanti anni. La depressione, la solitudine, la mancanza di denaro e di felicità, tutto appare negli occhi di questa donna forte ma fragile, arrogante ma gentile. Rimane appesa nella sua vita di sempre con mille difficoltà, ormai è spenta, vuota, sola e tale sua condizione la si può capire dalle parole che pronuncia tra le braccia di Armando nella notte caotica dell’Avana: “avrei voluto morire piuttosto che vivere così”.

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Eddi è quello che tra il gruppo di amici si è costruito una vita più agiata. Porta Rayban, veste giacche da centinaia di dollari e ha girato tutto il mondo. E’ un dirigente di una società ma come tutti, Eddi ha gli stessi problemi, le stesse tristezze di un uomo che voleva fare lo scrittore, ma che ha rinunciato perché aveva capito che non poteva avere futuro così. Si è venduto, ha chinato la testa di fronte a tutti ed è arrivato dove è arrivato. Rafa è il pittore del gruppo, colui che ha sempre avuto il talento per poter spingersi oltre l’isola cubana e mirare più in alto. E’ sempre stato definito il “bocca larga”, perché non stava mai zitto: amava i Beatles, lo diceva; amava l’arte americana, lo diceva. Per questo è sempre stato tenuto sott’occhio dallo stato cubano, come tanti altri, perché aveva gusti che non si addicevano alle politiche della Revolucion. Ma la sfortuna ha portato Rafa a non dipingere più: prima la separazione dalla moglie, poi la rottura dei rapporti con un museo parigino, poi l’alcool hanno fatto di lui un semplice impiegato. Aldo è  la meravigliosa forza del gruppo; nonostante abbia divorziato dalla moglie, non faccia l’ingegnere ma lavori in un laboratorio clandestino dove si brucia le mani toccando gli scarti delle batterie, abbia un figlio problematico senza futuro, è l’unico che per tutto il film ricorda a se stesso e a tutti gli amici come credevano un tempo alle loro speranze, come credevano in se stessi anche se tutto si stava spezzando; proprio quel credere che tutti loro hanno perso nel corso degli anni, viene rinfacciato da Aldo quasi ossessivamente. Armando infine è colui che è tornato da Madrid dopo 16 anni. Ha vissuto in terra spagnola da solo e senza fare lavori gratificanti. Voleva fare lo scrittore di teatro, o il romanziere ma da quando è partito ha smesso di scrivere; questo è il motivo che lo spinge poi a dichiarare davanti a tutti la sua volontà di restare a L’Avana, cosa che desta stupore e rabbia. Rimasto vedovo da qualche anno, della sua amata Angela che però non ha potuto più vedere dopo la sua partenza, si ritrova a dare spiegazioni, questa volta reali, del perché sia tornato.

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Le meravigliose interpretazioni di tutti gli attori fanno sì che lo spettatore si immerga tra quel gruppo di amici che tanto litiga quanto si ama. Sembra di essere lì, su quella terrazza a sentire odore di alcool e fumo, a udire il frastuono di una città sempre sveglia, a farsi venire il capogiro per le ore interminabili pieni di emozioni contrastanti che tutti provano e urlano, a “indossare” così le stesse assenze, gli stessi vuoti, le stesse vite sbiadite di Tania, Armando, Rafa, Eddi e Aldo. Con l’aiuto della macchina da presa sempre in movimento, che segue qualsiasi discorso, qualsiasi risata e lacrima, l’immedesimazione in quell’atmosfera è perfetta. Su quella terrazza tutto viene osservato e tutti si osservano; si guarda il mare, la città, le baracche, la strada, una ragazza che si asciuga i capelli, una bambina che salta e un maiale sgozzato vivo, con la stessa intensità di tutti i protagonisti che con i loro occhi si scrutano, si ritrovano, si rivivono a vicenda dopo tanti anni di distanza gli uni dagl’altri.  Il delicato quadro cinematografico ci viene dato un autore francese,  Laurent Cantet, conosciuto da qualche anno per “La classe”, ma tornato a farsi sentire alla 71esima edizione della Mostra del Cinema d Venezia per la giornata degli autori.

L’infinita grandezza di Leopardi

Tre bambini giocano in un giardino di una villa, spensierati dalla giovinezza della vita; si osservano, ridono e corrono nei pochi momenti in cui non sono chini a studiare libri di storia, filosofia, ebraico e latino. Il bambino dai riccioli ribelli color oro respira la propria libertà di giovinetto impugnando una piccola spada da gioco e sognando interminabili avventure. Il piccolo Leopardi con i suoi fratelli cresce; la sua passione è quella di tradurre, trascrivere opere antiche nell’italiano “moderno” di allora e comporre versi. Seduto accanto alla finestra, respira il giorno e la notte, chino sulla carta e sull’inchiostro senza mai distogliere lo sguardo. Nessuna persona, nessun stridore di carrozza, nessun canto d’uccello gli fa alzare gli occhi sempre più stanchi e la schiena sempre più curva da quei amabili fogli.

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Nessuno, ad eccezione della bella ragazza che tesse la tela dall’altra parte della strada e che ogni tanto si affaccia alla finestra che guarda proprio lo studiolo di Giacomo per sgranchirsi le gambe. Lei, quella amabile Silvia raccontata, trasfigurata in un angelo nelle poesie del Leopardi, diventa il primo ingenuo ma irraggiungibile amore del ragazzo che per timidezza, per rispetto, e per consapevolezza della propria condizione difficile di vita, non si avvicinerà mai alla bella ragazza. La osserverà sempre da lontano, così troppo lontano per sapere poi della sua malattia e infine della sua morte. A Recanati, il paese dove è nato il giovane Giacomo trascorre tutta la sua adolescenza, sotto l’occhio vigile e oppressivo di una madre inetta a fare la madre e la premura eccessiva di un padre che lo tiene sempre d’occhio. Esplicative sono le  scene che rappresentano tale situazione: dalla stanza d’affari paterna, l’unica prospettiva che si può avere è proprio quella nella quale viene posto il banco in legno accanto alla finestra sul quale ogni giorno il giovane poeta scrive, studia e legge. Proprio l’invadente costanza con la quale viene osservato e vigilato Giacomo, sarà quella che più lo farà allontanare dal suo nido natale, portandolo a scappare, a fuggire, a voler vivere una vita sua. Dopo l’incontro con uno dei maggiori letterati dell’epoca, Leopardi capisce che esiste un mondo oltre le mura della propria casa, e metaforicamente, osservando da quella siepe tanto famosa l’infinito dal suo “sempre caro mi fu quest’ermo colle”, si accorge che il suo “volo” è appena iniziato. Inizia così la seconda fase tanto importante quanto amara per il giovane poeta che trasferitosi da Recanati a Firenze, approda nella città delle arti per eccellenza. Qui, circondato da moltissimi e famosi letterati dell’epoca, e avendo fatto la conoscenza di quel che rimarrà il suo fedele amico di vita, Ranieri, incomincia ad essere conosciuto non tanto per la sua grandezza letteraria e culturale, ma per quella malinconia, quella tristezza che da sempre ha contraddistinto le sue opere e che diverrà il pretesto per il suo allontanamento dalla città di Firenze.

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Quel che cerca di spiegare Leopardi è che la vita per lui è tanto gioia e bellezza, quanto affanno e disgrazia e che, seppur osservando grandi masse di donne e uomini colti e felici all’apparenza, lui ha sempre visto in loro l’irrimediabile infelicità. Apprezzato da pochi, forse più per paura della sua grandiosa eccellenza e intelligenza che per le sue opere, decide di spostarsi dall’ostile Firenze per trasferirsi nella viva Napoli, dalla quale lui stesso afferma di poter “prendere” ogni giorno la bellezza selvaggia di quella terra e trasformarla in pace per se stesso. Ma anche nella colorata città del Sud, Giacomo, affettuosamente accudito dalla sorella di Ranieri, Paolina, e dal suo amico stesso, non trova quella silenziosa e normale vita che voleva avere. Le sue condizioni di salute peggiorano; non riesce quasi più a camminare, la sua schiena è così curva che può toccare le proprie ginocchia, e per di più anche in quella città, prima accolto come un grande scrittore, viene denigrato per la sua condizione fisica e mentale. Ancora una volta quella malinconia che l’ha reso noto, non riesce a far dimenticare il suo malessere; Leopardi non riesce a far capire che le due cose sono distinte, che se anche non fosse in quella condizione fisica  vivrebbe lo stesso quel pessimismo del quale tanto scrive. “Non attribuite al mio stato quello che si deve al mio intelletto!”, con questa frase lascia Napoli anche perché costretto dalle sue condizioni di salute, e si trasferisce a Torre del Greco. Il mare, il sole fanno bene al caro Leopardi che sempre più curvo e debole si lascia trasportare come fosse un bambino, dal letto alla poltroncina in terrazza e niente di più. La natura selvaggia del posto però lo turba; in una notte il tremore e l’incandescente lava che viene eruttata dal Vesuvio, scuotono l’animo del giovane che rimembrandosi quella tanto temuta madre, la paragona all’inarrestabile crudeltà che la natura ci pone davanti. Quella natura tanto ostile e vendicativa che non fa vivere nessun essere umano in pace con se stesso, ma lo riduce ad essere suo schiavo senza via d’uscita.

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Il meraviglioso protagonista che veste i panni dell’insormontabile Giacomo Leopardi è Elio Germano che con la sua bravura e sensibilità riesce a immergere lo spettatore in quell’angoscia, in quel senso di vita amaro  e angoscioso del poeta. Ride e scherza ironico, soffre e si immerge nella sua solitudine come se fosse in realtà lui il giovane poeta. Il grandioso gioco attorico che ne risulta grazie anche alla completezza e al supporto di altri bravissimi attori come Riondino, Popolizio e Graziosi fa da cornice e risalta il bell’effetto di inquadrature talvolta snervanti nell’inseguire in giovane Giacomo, quanto intime e delicate nel dipingere volti, espressioni e smorfie di ognuno dei personaggi che Leopardi incontra sullo sua strada.

Il giovane favoloso film di Mario Martone in uscita da pochi giorni nei cinema italiani, ma venuto alla luce alla 71esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, ci racconta la storia di uno dei poeti più illustri e più amati della nostra letteratura.  Ci mostra un uomo con le sue debolezze, le sue avversità ma che ha comunque la consapevolezza di andare avanti anche senza l’appoggio di nessuno, in particolare dei circoli letterari dell’epoca, con il coraggio di chi vive per scrivere. E così si svolge l’intero film in un’atmosfera paragonabile al “dolce naufragar” dell’Infinito.

Italy in a Day: Un Giorno di Vita Italiana

26 Ottobre 2013. Un giorno come gli altri ripreso da cellulari, fotocamere, telecamere, tablet e computer. Un giorno in cui speranza, delusione, amore, amicizia, solitudine e gioia si intersecano dando vita ad un puzzle stupefacente di emozioni.

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Le vite di una parte di italiani viene proiettata su uno schermo. La storia, questa storia, è quella reale, percepita sulla pelle delle persone. Non ci sono lieti fine hollywoodiani, non ci sono favole da raccontare, non ci sono fantascientifici personaggi. E’ la realtà, la più pura. Storie che si congiungono tra loro, che mostrano come gli italiani vivono le paure più profonde e le gioie più esaltanti nella vita di tutti i giorni. Si racconta il quotidiano, ciò che succede dall’alba al tramonto. Si presenta un popolo vero, dalla solitudine di un anziano che vorrebbe essere utile alla comunità, ad un bambino appena nato e messo tra le braccia di un babbo emozionato che non smette di piangere. Si passa da una scuola piena di ragazzi ironici sulla loro poco voglia di studiare, a chi invece sfortunatamente è andato a lavorare troppo presto; si passa dall’intimità di un letto, di due persone che si baciano e si promettono amore eterno, all’immensità dell’oceano. In quell’oceano dove si perde anche la più minima voglia di tornare con i piedi a terra, perdendosi così nell’inarrestabile bellezza consolatoria della natura. I desideri più nascosti vengono a galla; le timide emozioni di una ripresa fotografica o di uno slow motion che divampano irrimediabilmente, animano anche il più arido degli animi. Immagini belle da vedere per la semplicità con cui sono state riprese raccolgono il meglio di 44 mila video e di circa 2200 ore di girato. Il lavoro strepitoso di montaggio che si è venuto a creare ha fatto sì che ci fosse un’unica storia, un unico filo conduttore capace di raccogliere il meraviglioso spettacolo della diversità umana rendendolo universale.

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Il regista, che sulle orme di Ridley Scott con il suo Life in a day, ha dato forma a questa piccola grande Italia è Gabriele Salvatores che ha presentato il film alla 71° edizione della Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno.
Un lavoro enorme quindi, che ha richiesto infinita pazienza e maestria, ma che ha dipinto al meglio questa Italia. Un paese bello, anche se un po’ in affanno, ma pieno di persone che hanno il coraggio di sperare e la volontà di volercela fare.

La bellezza di un Oscar

Una folla pittoresca che si dimena ballando sulle note di “Far l’amore” , vuoti visi pieni di apparenza, macchiette di una Roma ormai spenta che saltano e sudano vorticosamente per aggrapparsi a quell’ultima speranza di ribalta che li potrebbe salvare dal grigiore inutile di una vita comune e noiosa. Si apre così uno dei film italiani più premiati di sempre. Partendo da quell’Oscar come miglior film straniero, che ormai mancava all’appello nel cinema italiano da 15 anni dalla Vita è bella di Benigni, alla vittoria dei Golden Globes, dei BAFTA, degli European film awards.

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Tra quella folla provocante di suicidi pensieri di intelligenza, uno fra tutti spicca per il suo particolare atteggiamento di riluttanza ed estasi verso questo mondo così vuoto e variopinto; è Jep Gambardella (Toni Servillo), scrittore e giornalista affermato, che per pigrizia e per mancanza di stimoli ha smesso di scrivere libri perché, come lui stesso afferma: “Le vedi queste persone? Questa fauna? Questa è la mia vita. E non è niente. Io sono circondato dal nulla. Il nulla non lo sapeva raccontare Flaubert, vuoi che lo sappia raccontare io?” .Grazie a questo personaggio, Sorrentino, ripercorre una Roma priva di qualsiasi bellezza moderna, poggiata solo su un passato florido di meravigliose speranze.

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La bellezza che invade Jep quando attraversa i corridoi e i giardini di principeschi palazzi e si trova davanti quelle armoniose sculture, quei catartici dipinti di epoche lontane, non ha niente a che vedere con l’atto esasperato, a cui assiste, di una performer che si getta contro un muro per maledire il giorno in cui è nata. Il niente, come lui dice, è questo: credere in qualcosa di sensazionale, di apparente e  di vuoto senza rendersi conto dell’intrinseca bellezza di semplicità e purezza dell’uomo. E proprio dall’uomo che lui riparte, da quel sentimento che aveva perso e che Ramona (Sabrina Ferilli) gli ricorda. La pura bellezza dei rapporti umani, del volersi bene, dello scavare oltre quella maschera e trovarsi davanti un uomo nudo da lussi, ma ricco e puro d’animo. La sua vita oziosa,le chiacchiere inutili con gli “amici” sulla sua terrazza che affaccia direttamente sul Colosseo, le lunghe passeggiate notturne dopo le solite feste ridondanti di bruttezza, vengono mostrate allo spettatore con inquadrature intime e suggestive grazie anche ad una strepitosa resa fotografica. Tra tutta quella fiumana di gente che circonda Jep, c’è una persona particolarmente affine alla sensibilità spirituale e artistica del protagonista: Romano (Carlo Verdone), scrittore teatrale mai realizzato e perennemente al guinzaglio di una bellissima modella che lo sfrutta per arrivare al successo. Con lui, Jep, si riserva il diritto di parlare anche di altro, di non cadere sempre nei soliti chiacchiericci,ma di discorrere di arte e  teatro, come se quel suo amico, ogni volta, fosse per lui una boccata d’aria in mezzo a quell’ammasso opprimente di superficialità. Romano però, a differenza di Jep, ha il coraggio di scappare, ha la forza di ricominciare, ha la bellezza di credere ancora in se stesso, salvandosi e lasciando Roma. La grande bellezza è anche entrare nei propri ricordi e lasciarsi andare alla loro sensazione di benessere; è guardarsi un po’ indietro e vedere come il più grande amore della tua vita, è quello che ti salva alla fine, quello che ti apre le porte ad un futuro migliore, ad una rinascita.  La grande bellezza è guardare negli occhi una signora, ormai anziana e divenuta per tutti “la santa”, che osserva il cielo e con la sua calma e purezza fa arrivare, in una suggestiva atmosfera onirica, dei fenicotteri rosa che simboleggiano il passaggio dalle tenebre alla luce. Ed è proprio questo che appare sul volto di Jep alla fine. I riflessi di un sole che sta per sorgere, simbolo di una serenità d’animo che sta per rifiorire.

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Paolo Sorrentino ha avuto il coraggio di decantare una bruttezza quotidiana, della quale tutti siamo spettatori, così naturale ormai da accettare, che la più semplice delle emozioni viene annullata dal più inutile lusso di apparenza. Si potrebbe sintetizzare l’intero film proprio dalla frase finale di Jep: “È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile.”  

Disconnect: vite parallele

Disconnessi dalla vita, aggrappati ad una realtà immaginaria, immersi nel mondo virtuale del web senza apparente via d’uscita, sono i personaggi del nuovo film del documentarista Henry Alex Rubin. Presentato sia al Toronto International Film Festival che alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Disconnect, propone il tema della solitudine dell’individuo in contrapposizione alla sua intricata e sempre viva presenza nel mondo virtuale.

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Fare i conti con la realtà, con la vita vera, vissuta, non è mai facile per nessuno, specialmente se gli ostacoli che si devono affrontare sono ancora più grandi del coraggio e della forza di volontà che ognuno di noi è in grado di tirar fuori. La paura, probabilmente, quella più cieca e angosciosa, di non riuscire a combattere e vincere con le proprie forze, porta a nascondersi, a cercare un rifugio in qualcosa che è sempre vivo, sempre onnipotentemente presente, che non lascia spazio se non “esserci”. Ed è proprio questo che i nostri personaggi fanno; si lasciano andare cercando quel qualcosa, che magari, relazionandosi con un’altra persona, non potrebbero avere, perché si sa, la maggior parte delle volte non si è forti quanto basta per trovare le motivazioni giuste per sostenersi da soli, figurarsi aiutare gli altri. E allora, come i personaggi di Disconnect, si cerca quell’ “affetto”, quella vicinanza consolatoria e comprensiva che solo una realtà diversa, magari virtuale può regalare: quella del Web.  Immersi completamente in una spirale dai risvolti problematici e talvolta tragici, si alternano  le vite reali e parallele di una coppia in crisi reduce da un profondo lutto, di un poliziotto che diventa detective per stare più vicino al figlio, di una coppia di ragazzini che non si rendono conto dell’errore che stanno per compiere, di un padre che non si accorge che il proprio figlio gli sta chiedendo aiuto e infine di una giornalista che, credendo di “salvare” un ragazzo, lo sfrutta invece solo per un successo lavorativo.

Storie tra loro molto diverse, ma accumunate dal destino. Un destino che li fa incontrare, li fa conoscere e fa scoprire la loro vera natura. Probabilmente è questo il più grande punto di riflessione dell’intero film: si conosce davvero noi stessi quando si ha una persona davanti nella quale rispecchiare la propria anima. Niente monitor, niente computer, la vera essenza del vivere è guardarsi negli occhi, e proprio gli occhi sono i grandi protagonisti. Attraverso di loro, i personaggi, si animano; capiscono che finora hanno solo osservato una realtà che “faceva luce” e che il bisogno primario di sentirsi parte integrante nella vita altrui, è quello di parlarsi uno di fronte all’altro, senza vie di fuga. Un sceneggiatura sorprendente, data la intricata serie di vicende che si vengono a creare, ma non sostenuta altrettanto bene da una regia troppo statica, quasi televisiva. Inquadrature che non rivelano mai gli stati d’animo dei personaggi, ma che lasciano spazio invece ad interpretazioni attoriche emotivamente forti.                                                                                      

La fine prevedibile e tuttavia non banale, ci porta a domandarci cosa possa accadere; se si lascia che la vita vissuta faccia il suo effetto.  Non c’è nessuna pace né bufera, c’è solo l’aspettare, per quanto tempo non si sa, ma d’altronde la vita vera è questo.

 

Dietro i candelabri della vita

behind-the-candelabra-matt-damon-michael-douglas2Presentato alla 66° edizione del Festival di Cannes, ma mai uscito nella sale cinematografiche americane perché giudicato “troppo gay”, Behind the Candelabra è il nuovo film del talentuoso regista Soderbergh, in uscita nella sale italiane a partire dal 5 dicembre 2013.

Siamo alla fine degli anni 70 e la più famosa star dell’intrattenimento musicale è Valentino Liberace. Re del kitsch, amante di vestiti stravaganti, di gioielli femminili, di trucco pesante, è anche uno dei più talentuosi ed eccentrici pianisti nel mondo musicale internazionale di quegli anni. Durante una serata, dopo uno dei suoi spettacoli, conosce Scott Thorson, giovane biondo dal fisico prestante che ha sempre vissuto in case adottive, e che su Liberace ha un effetto calamita. Inizia quindi una lunga e tormentata storia d’amore che dura sei anni; una storia d’amore fatta di passione, sesso, lusso, ma anche di tenerezza e dolcezza. L’uno riempie la vita dell’altro. Liberace, da una parte, sente sempre il bisogno di non sentirsi solo, di cercare un rifugio sicuro dietro l’apparente felicità del luccichio del mondo dello spettacolo e Scott, dall’altra, ha sempre, in tutta la sua giovane vita, sentito il bisogno di trovare una famiglia; quella famiglia, la sua, che in realtà non ha mai avuto, e che sente ora come primaria esigenza per potersi completare.

Una relazione, quella tra i due protagonisti, così morbosa, così totalizzante, che porta lo stesso Liberace a volere a sua immagine e somiglianza il giovane Scott che viene sottoposto ad una serie di interventi chirurgici per assomigliare all’eccentrico partner in giovane età. La promessa di essere adottato da Liberace, le prime apparizioni pubbliche al suo fianco una “dieta californiana” a base di pillole che lo porta a crearsi una vera e propria dipendenza anche dalla droga, e la gelosia, precipitano Scott nella realtà più oscura, più assordante; una realtà costruita sull’essere troppo parte integrante dell’altro. E allora c’è bisogno di uscire da questo logoramento, c’è bisogno di riprendere in mano le fila della propria vitae Liberace, un po’ perché obbligato, un po’ per amore, riesce a liberarsi di Scott, ma allo stesso tempo, a salvare il giovane da una fine amara.

La semplicità con cui è narrata la storia, la semplicità con cui essa è resa dal punto di vista registico e di scrittura, fa si che ci si possa concentrare solamente sui due protagonisti. Michael Douglas, che veste i panni di Liberace, è riuscito a non farlo diventare una macchietta ridicola, anzi, al contrario, gli ha dato potenza, lo ha fatto mostrare come un uomo dal grande senso dell’umorismo, generoso, mai volgare neanche nelle discussioni più efferate con Scott, dall’animo sensibile e innamorato, giusto con gli altri e con se stesso, mai privo di dignità.

Lo Scott di Matt Damon è un giovane estremamente affascinato dal mondo dello spettacolo e da tutto quel lusso che lui stesso si trova di fronte e che non riesce a gestire. Si innamora di Liberace, si innamora della sua voglia di protezione nei suoi confronti, si innamora di quel suo modo di parlare, di pensare e di amarlo e per questo è anche facilmente preso da impulsivi attacchi di gelosia. E’ un giovane che è già in partenza fragile, che riesce ad essere forte solo nei primi momenti della sua relazione con Liberace, quando anche lui si rende conto che ha una forte influenza sull’anziano pianista. Ma è un momento, basta poco per far riaffiorare tutta quellafragilità e ciò avviene inevitabilmentequando vede che il rapporto d’amore si sta incrinando.

Dietro i candelabri, dietro al luccichio delle apparenze, c’è una vita diversa, dove basta un attimo per sentirsi persi. Ma è probabilmente quella vita che aiuta a capire che con la genuinità dei sentimenti ci si può sempre salvare.